Cina: la strategia zero Covid preoccupa gli espatriati

Vita quotidiana
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Pubblicato 2022-03-28 alle 10:00 da Sophie Hoy
Hong Kong è una megalopoli che conta 7.482 milioni di abitanti. Da metà febbraio i casi di Covid-19 sono aumentati in modo esponenziale, registrando un tasso di contagi mai visto prima. ll numero di persone positive supera le 10.000 unità al giorno.

Per frenare l'avanzata dei contagi, già a febbraio sono state attuate misure estremamente rigide: tutte le persone positive, anche se asintomatiche, venivano ricoverate in ospedale, o in centri di quarantena. Le strutture sanitarie di Hong Kong si sono presto riempite. La situazione ha richiesto che i pazienti fossero sistemati anche in hotel e altri alloggi, adibiti ad accoglierli. Ciò nonostante il sistema è collassato. La Cina intera ha attuato misure molto severe, la gente ha opinioni contrastanti in merito alla loro utilità.

Perché misure così rigide?

Rispetto ad altre nazioni la Cina è stata meno colpita dalla pandemia, fino ad adesso per lo meno. Merito forse delle limitazioni sulla mobilità e di uno screening capillare della popolazione. I voli internazionali in uscita sono stati ridotti del 98% rispetto al 2019 mentre i viaggiatori in ingresso devono tuttora sottoporsi a una quarantena che va dalle due alle tre settimane. Per gli espatriati, lasciare il paese è relativamente facile mentre rientrare è molto complesso.

Cyntia, una giovane americana, ci racconta che a causa del Covid ha dovuto posticipare il suo espatrio in Cina. Aspetta di vedere come si metteranno le cose, ma non è più così sicura di voler partire. Un suo amico, che vive in Cina e che è rientrato negli Stati Uniti l'anno scorso per una vacanza, è ancora bloccato a casa. Per fortuna può lavorare a distanza.

Per gli espatriati in Cina, la situazione non è meno complessa. Ad ogni nuovo contagio le autorità isolano le zone contaminate. Hong Kong e altre aree sono state bloccate, senza preavviso, per intere settimane, costringendo famiglie a vivere separate e impedendo alle persone di andare al lavoro.

Romu vive a Hong Kong. Ci parla della sua esperienza: “Il 24 febbraio c'è stato il primo lockdown. I guardiani all'ingresso del mio condominio mi hanno avvisato che una volta entrato non sarei più potuto uscire. Sono subito andato a fare la spesa. Nel quartiere dove vivo c'è solo un supermercato, che è stato preso d'assalto. Per fortuna le autorità hanno reagito in fretta e già dopo due giorni si poteva ordinare la spesa on-line, con consegna rapida. Abito in un complesso molto grande (più di 10.000 persone) che è stato chiuso per un solo caso positivo. Nel giro di qualche giorno hanno bloccato l'intero quartiere. Poi hanno imposto di fare un test ogni giorno, con la garanzia che nel giro di due settimane ci avrebbero liberati. Così non è stato. 
Abbiamo dovuto aspettare fino al 12 marzo, senza motivo. Il 13 tutta la città è stata confinata."

Alcuni ci fanno notare come, al termine del lockdown, siano stati obbligati a recuperare le ore di lavoro perse (nel caso in cui non abbiamo potuto lavorare da casa). "Usciamo di casa presto al mattino, siamo in tanti e i trasporti pubblici sono congestionati. Non è possibile rispettare il distanziamento sociale e facciamo code interminabili alle fermate".

Restare o partire 

Le opinioni della gente sono diverse, c'è chi condanna questa politica di zero tolleranza e chi invece l'accetta. Vincenzo, che vive a Yuen Long, è tra questi ultimi. "Per molti le misure sono dure, ma permettono di gestire la situazione: Gli allentamenti che sono stati annunciati, serviranno a placare gli animi di chi scalpita. L'unica cosa che secondo me penalizza gli espatriati è la durata della quarantena. Per il resto, la vita a Hong Kong è stata relativamente facile negli ultimi due anni. Ho figli piccoli e la loro istruzione non ha finora subito contraccolpi".

Romu afferma di sentirsi al sicuro: “A mio parere, anche se le restrizioni sono severe (…), abbiamo vissuto due anni senza COVID mentre il resto del mondo ha registrato un numero impressionante di casi e di morti. Ci sentiamo più al sicuro qui. La Cina ha la capacità di essere molto reattiva. Il lockdown qui dà i suoi frutti, a differenza di alcune realtà europee".

Antonio, che vive a Shanghai da 3 mesi, sperava invece che le restrizioni fossero completamente rimosse. "I periodi di quarantena imposti dal governo si ripercuotono negativamente sulla popolazione, che è sempre più stressata. Non sopporto più questo tipo di politica. Non la trovo adatta alla situazione e costa eccessivamente cara al governo considerando che fanno milioni di test PCR ogni giorno".

Antonio mette anche l'accento sui cambiamenti politici che dal 2018 rendono il Paese meno accogliente e che hanno portato a problemi di integrazione: “La popolazione locale ha un atteggiamento di diffidenza verso lo straniero e il fatto di dover mantenere le distanze impedisce le interazioni. A 2 anni dall'inizio della crisi, penso che si dovrebbe pensare diversamente e, perché no, imparare a convivere con il Covid, come in Europa".
Sta pensando di lasciare la Cina e tornare a casa: "Resto per motivi professionali ma quando, tra 6 mesi, terminerò il progetto a cui sto lavorando, me ne andrò".

Un altro membro di expat.com ci dice che nella sua città non ci sono più casi positivi grazie alle misure messe in atto. I controlli molto severi lo fanno sentire al sicuro e da poco ha ripreso a frequentare gli amici senza mettere la mascherina. Pur non negando che le restrizioni sulla mobilità abbiano penalizzato parte della sua quotidianità, è conscio del fatto che queste misure gli abbiamo permesso di restare in buona salute. E a tutti gli espatriati che si lamentano della gestione del governo dice chiaro e tondo: "Se non approvate i modi di fare di questo paese, per favore andatevene". Non sforzatevi di vivere in un posto che non vi rende felici".

Una testimonianza che fa riflettere sul senso stesso dell'espatrio. Ognuno faccia le proprie scelte...